Piano Seminterrato: la Sezione Orientale
La collezione di arte dell’Estremo Oriente, ricca di circa duemila pezzi, si colloca come una delle più importanti a livello nazionale e internazionale. Costituita per lo più da porcellane cinesi e giapponesi, vede anche la presenza di consistenti nuclei di smalti cloisonné, giade, pietre dure, lacche e bronzi. Nella seconda metà dell’Ottocento, Placido de Sangro, duca di Martina, acquista, fra Parigi, Londra e Napoli, porcellane e altri oggetti orientali per lo più giunti sui mercati europei tramite le Compagnie delle Indie Orientali. Il gusto collezionistico che orientò gli acquisti di porcellane orientali da parte del duca di Martina è da mettere in stretta relazione con le scelte da lui operate nel campo delle porcellane occidentali, rivelando una spiccata preferenza per quelle tipologie di oggetti che, riscuotendo maggior successo in Europa, si imponevano come modelli per le grandi manifatture di porcellane europee.
Cina, smalti cloisonné
Il nucleo degli smalti cloisonnés cinesi, presente nella collezione Placido de’ Sangro è costituito da quarantotto pezzi di epoca Ming (1368-1644) e Qing (1644-1911). La tecnica dello smalto cloisonné fu probabilmente introdotta in Cina da Bisanzio ad opera di artigiani musulmani durante la dinastia Yuan (1279-1368) e definitivamente assimilata dalle manifatture cinesi intorno alla prima metà del XIV secolo.
La produzione di questi smalti destinati al mercato interno è costituita, per la maggior parte, da oggetti di culto, di arredo e per lo studio del letterato.
Le forme, derivanti dai bronzi rituali e dal vasellame d’uso, e i motivi decorativi, per lo più floreali o ad animali fantastici, seguono quelle dei contemporanei modelli in porcellana, lacca e bronzo.
Popolari sono i vasi di forma arcaica, gli incensieri, i candelieri, utilizzati come ornamento in templi e palazzi, e piccoli oggetti da scrittoio. I motivi decorativi includono volute di loto, viti, maschere taotie, simboli taoisti, draghi, così come scene pittoresche.
Durante il periodo Ming (1368-1644), la tavolozza cromatica si limita a un blu turchese per il fondo, e al rosso, giallo, verde, bianco e violetto per i decori, ma, con il passare del tempo, si arricchisce di nuovi colori arrivando, nel corso del XVIII secolo, fino ad un numero di ventiquattro.
Con l’apertura delle officine imperiali a Pechino, durante il regno dell’imperatore Kangxi (1662-1722), la tecnica del cloisonné venne perfezionata e standardizzata.
Approfondimenti
Smalto cloisonné: la tecnica orientale del cloisonné consiste nel saldare o incollare con adesivi vegetali, al corpo dell’oggetto in bronzo, ottone o rame, alcune sottili liste metalliche, i cosiddetti cloisons, ricavate da fogli di bronzo, ottone o rame, seguendo un disegno eseguito con inchiostro. Gli alveoli così formati vengono riempiti di smalti colorati, applicati in polvere e fusi mediante cottura a gran fuoco (circa 700°-800° gradi). Il processo viene ripetuto più volte, dato che la pasta vetrosa tende a contrarsi durante la cottura. La superficie è infine polita con polveri molto fini e le pareti degli alveoli, rese visibili, sono quindi dorate. La lavorazione dei metalli era conosciuta in Cina già nel II secolo a.C., tuttavia, sembra che la tecnica dello smalto cloisonné sia stata introdotta dai Mongoli nel XIV secolo oppure da artigiani musulmani provenienti da Bisanzio durante la dinastia Yuan.
Cina, monocromi
Le porcellane monocrome occupano un posto di rilievo nella produzione cinese della fine del XVII secolo, quando, con la riapertura delle fornaci imperiali di Jingdezhen, si assiste, da un lato, al recupero di modelli desunti dai bronzi arcaici e, dall’altro, alla creazione di forme nuove.
Cina, monocromiOgni colore dell’invetriatura era destinato a una specifica committenza: infatti, se in Cina la corte preferiva esemplari dai colori più tenui quali il “fiore di pesco”, il “polvere di tè” o il “clair de lune”, in Europa, fin dall’inizio del XVIII secolo, si affermano toni accesi come il turchese e il blu con decori in oro.
A Parigi le porcellane monocrome importate dalla Cina venivano impreziosite con montature in argento o in bronzo dorato per adattarle al sontuoso gusto degli interni.
Il Museo presenta una selezione di vasellame, oggetti da scrittoio e plastiche raffiguranti divinità buddhiste e taoiste in monocromia turchese, sangue di bue e blanche de Chine.
Cenni sull’oggetto in foto
Il vaso del tipo rouleau, con corpo cilindrico e ampia bocca svasata, presenta un’invetriatura a due colori, blu e turchese, con effetti flambé e fitta craquelure su tutta la superfice. Con il termine francese flambé si indica un tipo di invetriatura in cui, durante le fasi di cottura, utilizzando diverse concentrazioni di rame sulla superficie o alternando atmosfere riducenti e ossidanti, si ottengono sulla superficie effetti di striature di colore simili a fiamme. L’effetto della craquelure, definito dai cinesi suiqi (pezzi in frantumi) o binglie (ghiaccio spezzato), era ottenuto mescolando alla vetrina un particolare ingrediente (suiyu) di natura steatica che ne favoriva la contrazione in fase di cottura. Le screpolature così prodotte potevano essere messe in evidenza sfregando sulla superficie non ancora fredda ocra rossa, inchiostro o un composto di foglie di tè.
Giappone, Imari
Il Giappone era noto in Europa già a partire dal XVI secolo, quando le compagnie di navigazione portoghesi iniziarono a introdurre le prime lacche, mentre la porcellana fu nota solo a partire dalla seconda metà del XVII secolo, in seguito alla crisi politica che investì la Cina Ming. La produzione di porcellana era d’altra parte iniziata solo all’inizio del Seicento, data la preferenza per il grès e la terracotta considerati più adatti alla “cerimonia del tè”.
Giappone, ImariLe prime porcellane in bianco e blu venivano prodotte nei forni sull’isola di Kyushu e nella zona di Arita come imitazione richiesta da Inglesi e Olandesi dei modelli cinesi. Dalla metà del Sei alla metà del Settecento si assiste a una reciproca influenza fra porcellana cinese e giapponese stimolata dalla competizione alimentata dalle richieste sempre più esigenti dei committenti sia europei che asiatici.
Fra le principali tipologie delle porcellane giapponesi da esportazione presenti nelle collezioni del Museo vanno ricordati il tipo Imari, cosiddetto dal porto da cui venivano spedite verso il sud-est asiatico e l’Europa le porcellane prodotte nelle fornaci di Arita, caratterizzate da una predominanza del blu, applicato sottocoperta, e di smalti rosso e oro sopracoperta, e il tipo Arita, termine con cui viene definita la porcellana bianco e blu. I motivi decorativi sono per lo più composizioni floreali, nuvole e frutti.
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La bottiglia, realizzata in pasta molto fine durante l’epoca Genroku (1688-1703), ha forma cilindrica con collo stretto e corto, sormontato da un coperchietto in porcellana dorata. Il corpo è decorato con carpe (simbolo di felicità) dipinte in smalti blu sotto coperta, rosso, verde e oro. Questo decoro, pressoché sconosciuto sulle porcellane cinesi, è molto frequente sul vasellame di Arita, tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo. La bottiglia, è uno dei rari esemplari che presenta una marca con un fuku (termine che indica felicità e buona fortuna) inserito in un doppio quadrato, marchio simbolico di origine cinese, ma molto frequente sulle porcellane giapponesi per tutto il XVIII secolo.
Giappone, Kakiemon
La porcellana policroma Kakiemon viene prodotta a partire dalla metà XVII secolo ad Arita nella provincia di Hizen, nel sud del Giappone, e decorata dalla famiglia di Sakaida Kizaemon, meglio noto con il soprannome Kakiemon, da cui la porcellana trae il nome.
Giappone, KakiemonLa bellezza di queste porcellane risiede nel corpo bianco latte e in un ornato dipinto in smalti sopracoperta i cui colori prevalenti sono il rosso arancio, simile a quello del kaki maturo, che, per l’appunto, dà il nome alla famiglia dei vasai, il verde erba e il blu azzurro. La decorazione, caratterizzata da una decisa asimmetria, presenta come motivi ricorrenti fiori, quaglie, scoiattoli, uccelli e farfalle.
La porcellana Kakiemon, di qualità superiore rispetto a quella Imari, subisce due cotture prima della smaltatura, di cui la prima per il corpo e la seconda per l’invetriatura. I pezzi venivano esportati in Europa dagli Olandesi tramite il porto di Nagasaki e riscossero grande apprezzamento tanto da essere imitati presso le maggiori manifatture di porcellane tedesche, inglesi e francesi. Il Museo Duca di Martina possiede un bel gruppo di esemplari Kakiemon, tra cui vasellame e alcune statuine tipiche di questo genere di produzione, databili fra il 1670 e il 1700.
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La figura di donna, realizzata in pasta non eccessivamente fine durante l’era Genroku (1688-1703), è un raro esemplare di “bijin” (modello di bellezza) in stile Kakiemon, tipologia di cui esistono rari esemplari sia in Europa che in Giappone. Queste statuine, venivano prodotte ad Arita nell’ultimo quarto del XVII secolo e due di esse sono state addirittura attribuite a Kakiemon IV (1641-79) o V (1660-91). In base a un’analisi dell’abbigliamento e dell’acconciatura, la donna potrebbe appartenere alla classe guerriera, infatti, il kimono è decorato con fiorellini in smalto rosso sparsi su un fondo geometrico in azzurro con contorni rossi. L’abito che lo copre, o uchikake, presenta crisantemi rosso ferro e motivi di corsi d’acqua color verde, azzurro e giallo profilati in nero. Anche i capelli e la cintura (obi) sono in smalto nero. La figura, nel complesso, denota il gusto sfarzoso caratteristico dell’era Genroku, in cui si conduceva una vita spensierata e lieta.
Cina, bronzi Qing
Oggetti in bronzo, particolarmente apprezzati in Cina per il loro valore simbolico e rituale, cominciarono a essere collezionati dai letterati confuciani nel corso della dinastia Song (960-1279). I bronzi di epoca Ming (1368-1643) e Qing (1644-1912), spesso modellati su forme e decori arcaicizzanti, erano prevalentemente utilizzati come soggetti ornamentali.
Cina, bronzi QingSvariate tecniche decorative su bronzo vennero adottate nelle officine della città di Sezhou e Nanjing: decori incisi e a rilievo, ageminatura in argento, applicazioni di pietre e lamine d’oro.
Le forme più popolari includevano grandi vasi ornamentali, incensieri, oggetti per lo studio del letterato, spesso decorati con motivi arcaicizzanti come maschere taotie o draghi, e statuine raffiguranti animali o personaggi leggendari.
I bronzi assumono in epoca Ming (1368-1644) e Qing (1644-1911) un ruolo di spicco nell’ambito dell’arte di disporre i fiori, cui viene dedicato ampio spazio nei saggi sul “buon vivere”.
Oltre ai vasi da fiore, di solito abbinati in coppia, in quest’epoca si producono anche statuine di animali o figure mitologiche e piccoli oggetti da scrivania per i letterati che, molto spesso, sul fondo, recano inciso il nome del fabbro, come per esempio nell’incensiere in foto, che presenta il marchio “vecchio Shi”, uno dei fabbricanti più conosciuti.
Approfondimenti
Bronzo: è una lega di rame e stagno la cui tecnica di fusione si basa su matrici a sezioni, in argilla, sulle quali si incide la decorazione. In Cina il possesso e la gestione dei minerali necessari alla composizione del bronzo erano prerogativa esclusiva della dinastia al potere. Si racconta che l’imperatore Yu il Grande, fondatore della dinastia Xia (XXI-XVI secolo), avesse diviso il paese e ordinato che fossero fusi nove tripodi, decorati con rappresentazioni di ogni regione e portati come tributo da ogni provincia. I Cinesi pensavano che questi tripodi avessero poteri magici e allontanassero le influenze negative, perciò sono diventati il simbolo della dinastia e trasmessi alle successive.
Cina, Famiglia rosa
La “Famiglia rosa” rappresenta, per perfezione tecnica e abilità decorativa, il momento culminante della produzione ceramica cinese. Caratterizzata dalla prevalenza di varie tonalità di rosa e di tinte rese più opache dall’uso del bianco, è chiamata anche yancai (colori stranieri), perché lo smalto rosa, derivato dal cloridrato d’oro e di stagno, anche noto come porpora di Cassio, perché scoperto nel 1650 dal fisico olandese Andreas Cassius di Leida, fu introdotto in Oriente dai Gesuiti verso la fine del regno Kangxi (1662-1722), affermandosi pienamente nella produzione domestica e di esportazione solo a partire dalla terza decade del Settecento.
Cina famiglia rosaParallelamente all’adozione di una tecnologia straniera, l’imperatore Kangxi mantenne una politica di continuità con la tradizione, promuovendo la produzione di porcellane bianche che dalle fornaci di Jingdezhen venivano inviate alle botteghe di Canton per essere decorate in stile “famiglia rosa” e quindi esportate sui mercati europei, dove furono particolarmente apprezzate nel corso dell’Ottocento.
Nelle collezioni del Duca di Martina sono presenti svariati esemplari che ne testimoniano la varietà stilistica e iconografica: dai raffinati e più antichi pezzi “a guscio d’uovo”, cosiddetti per sottigliezza e trasparenza dell’impasto, decorati con soggetti orientali e occidentali dipinti a tinte tenui ai più tardi esemplari della seconda metà del Settecento, di maggiore spessore, caratterizzati dall’uso di tonalità di colore molto più cariche e dalla sempre maggiore influenza di modelli decorativi propri delle manifatture occidentali, espressamente richiesti dai committenti europei.
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Tipico della “Famiglia rosa” è il decoro figurativo con sinuose creature femminili ritratte in quadretti familiari con bambini o giovani servitori, presente anche al centro del piatto. Entro la ricca bordura della tesa decorata a motivi floreali risparmiati su fondo di esagoni fioriti e losanghe, è racchiusa la scena raffigurante una donna che, seduta su un largo sedile simile al tradizionale letto cinese kang e circondata da due larghe giare e da un alto sedile in legno traforato su cui poggia un vaso in bronzo contenente oggetti da scrittoio, riceve un omaggio floreale.
Cina, porcellane a imitazione Imari e Kakiemon
All’inizio del XVIII secolo le fornaci cinesi di Jingdezhen iniziano a produrre porcellane decorate in blu sottocoperta, rosso e oro a imitazione delle porcellane giapponesi di tipo Imari. Tali imitazioni, decorate secondo il repertorio tradizionale giapponese cui si aggiungono paesaggi fluviali, rami fioriti e composizioni che richiamano quelle della Famiglia verde, furono molto apprezzate in Europa, anche grazie alla maggiore economicità rispetto a quelle giapponesi e a quelle cinesi di Famiglia rosa e verde.
Cina, porcellane a imitazione Imari e KakiemonNello stesso periodo si producono anche porcellane che imitano lo stile giapponese Kakiemon, con l’utilizzo di tinte tenui e soggetti semplici (paesaggi, animali ecc).
Altro tipo di decorazione, considerata una variante dello stile Imari, prevede esclusivamente l’utilizzo del rosso ferro e dell’oro, ispirandosi, per la scelta dei soggetti, sia alla “famiglia verde” (draghi, scene fluviali e campestri) sia a scene di ispirazione occidentale.
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Il vaso, parte di una coppia e risalente alla fine dell’epoca Kangxi, è in pasta spessa con una copertura traslucida e priva di imperfezioni tecniche. Il corpo, con tre rigonfiamenti, presenta un lungo collo svasato all’imboccatura ove sono ancora visibili tracce di doratura. Ciascun rigonfiamento, diviso da una fascia orizzontale a rombi fioriti in blu sotto coperta e oro, è decorato con rami di peonie, crisantemi e fiori di pesco in smalti blu, rosso, verde, giallo e oro; il collo presenta un motivo di foglie stilizzate alternate in smalti blu e rosso. Stando agli studi effettuati da molti studiosi, la produzione cinese in stile Imari, va collocata nell’ultimo ventennio dell’era Kangxi.
Cina, decori “alla maniera occidentale”
La produzione con decori in stile occidentale risale alla prima metà del XVI secolo e coincide con l’arrivo dei Portoghesi in Cina, mentre il periodo di massima diffusione di soggetti e forme europee nelle fornaci imperiali e private si ha nel XVIII secolo con il conseguente stanziamento di compagnie di commercio occidentali nel porto di Canton.
Cina, decori alla maniera occidentaleLa creazione di prodotti destinati esclusivamente al mercato occidentale si riflette nelle scelte iconografiche più vicine al gusto e alle forme europee: sulle porcellane vengono realizzati decori a soggetto storico e mitologico, ma anche scene di interni, galanti e stemmi araldici. Molto richiesti dal mercato europeo, erano anche soggetti di commemorazione per eventi speciali e scene erotiche, mentre un’unione fra decoro europeo e stile cinese tradizionale si ottiene verso la fine del secolo nelle scene di paesaggio.
Fra il 1730 e il 1750 si diffondono decori a grisaille che attraverso il fitto tratteggio in seppia, rosso ferro o nero, rialzato da tocchi in oro, riproducevano le stampe inviate come modello dall’Europa.
La reciproca influenza fra Cina ed Europa non si limita all’introduzione di nuovi decori desunti da quelli delle porcellane occidentali, ma si estende anche alla produzione di forme non tradizionali in Oriente: teiere con manici, caffettiere e tazzine ansate, portacandele ecc.
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Il piatto, prodotto in Cina sotto la dinastia Qing e databile alla metà del XVIII secolo, presenta al centro una scena di vita privata tratta dalla stampa di Claude Duflos (1700-1786) intitolata “Le Bain”e dipinta a grisaille: una giovane donna in déshabillé, dai tratti tipicamente europei, è rappresentata sullo sfondo di un paesaggio mentre effettua la toeletta, con l’aiuto di un servo. Sulla tesa è presente una bordatura del tipo laud-und-baudelwerk caratteristica della produzione del settecento viennese di Claudius Innocentius Du Paquier.
Cina, periodo di transizione
Il periodo di transizione (1620-1683) vede il passaggio dalla dinastia Ming (1368-1644) a quella Qing (1644-1911) e se politicamente fu una fase di confusione, culturalmente fu una fase ricca di innovazioni.
Chiuse le fornaci imperiali di Jingdezhen, la produzione continua in quelle private che erano più libere di creare sia nuove forme che nuovi decori: la produzione destinata al Giappone, per esempio, si concentra su porcellane da utilizzare durante la cerimonia del tè.
Cina, periodo di transizioneIl Museo ospita una collezione di porcellane wucai o a “cinque colori”, caratterizzate da eleganti composizioni in blu sottocoperta e smalti sovracoperta rosso, giallo, verde, turchese e viola melanzana, e alcune porcellane del gruppo “rosso e verde”. Le iconografie, si ispirano alle opere teatrali e al mondo taoista, mentre nelle forme c’è anche qualche richiamo al mondo islamico.
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La brocca, con alto collo, esile versatoio, coperchio in argento e sottile ansa in avorio, si rifà nella forma a metalli islamici ed è databile ta il 1650 e il 1683. Il decoro presenta, oltre a motivi vegetali e floreali, due figure di Immortali, leggendari personaggi della filosofia taoista cinese, racchiusi entro cartigli simili a nuvole.
Cina, Famiglia verde
Durante il regno di Kangxi (1662-1722) la porcellana wucai (cinque colori) si evolve in un nuovo stile di decoro, definito, in Cina, yingcai (colori forti) e, in Europa, “famiglia verde”, dalla denominazione del collezionista francese Albert Jacquemart, il quale classificò le porcellane cinesi in base al colore dominante. La tavolozza comprende un verde brillante e traslucido, un rosso-corallo opaco, uno smalto blu e smalti di colore melanzana, giallo e nero. Le forme presentano analogie con i vasi bianco e blu e con i prototipi metallici islamici e indiani.
Particolarmente apprezzati furono i motivi tradizionali, dipinti in eleganti ed armoniche combinazioni e spesso ispirati alla pittura del periodo. Fiori e uccelli, paesaggi, animali fantastici, immortali taoisti o scene figurative tratte dal teatro popolare coprono l’intera superficie di vasi e larghi piatti, mentre fitte volute floreali o motivi geometrici arricchiscono il fondo e i bordi. Gran parte della porcellana decorata nello stile “famiglia verde” era destinata a scopi ornamentali, sebbene fossero prodotti per il mercato estero sia interi servizi da tè e da caffè sia vasellame di uso quotidiano, spesso decorati con gli stemmi familiari dei committenti europei. Una variante del decoro “famiglia verde” è costituita dalla ceramica sancai (tricolori), ispirata all’antica tradizione Tang e caratterizzata dall’applicazione di smalti giallo, verde e melanzana direttamente sulla superficie non invetriata degli oggetti. In questo stile vennero realizzate statuine umane o zoomorfe ed oggetti in miniatura per lo scrittoio del letterato. Nel 1720 iniziò una fase di declino di questa famiglia a causa dell’affermarsi di nuovi colori che attraevano maggiormente i mercanti.
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Il piatto è decorato, sul cavetto, da una scena raffigurante l’imperatore seduto a una scrivania e circondato da un gruppo di letterati intenti a visionare testi antichi prelevati dagli scaffali della biblioteca. Lungo la tesa, invece, compaiono otto cartigli contenenti alcune delle “cento antichità” o bogu, termine derivante da fonti sacre e profane che indica molteplici oggetti, tra cui, i più comuni sono bronzi arcaici, oggetti dello studio del letterato e strumenti musicali. Esposto nel 1865 a Parigi, presso l’Union Central des Beaux-Arts, il piatto fu assai apprezzato da Jacquemart che ne fece un’attenta recensione.
Cina: Bianco e blu
La porcellana “bianco e blu”, o qinghai, costituisce uno dei gruppi più popolari nella produzione ceramica cinese e nelle collezioni del Museo Duca di Martina, sono presenti oltre duecento pezzi di epoca Ming (1368-1644) e Qing (1644-1911). La tecnica del decoro in blu “sottocoperta”, realizzata con l’uso di ossido di cobalto importato dalla Persia applicato al di sotto della vernice piombifera di copertura, fu perfezionata nei forni imperiali della città di Jingdezhen nel corso della dinastia Yuan (1279-1368). Ad iniziare da questo periodo Jingdezhen divenne il principale centro di produzione di porcellana cinese, destinata sia al mercato interno sia a quello estero.
Il vasellame decorato in stile “bianco e blu” venne esportato nel Medio Oriente, Sud-est asiatico, India e Giappone sin dal XIV secolo, mentre solo rari esemplari, in questo primo periodo, raggiunsero l’Europa, dove l’apice delle importazioni di “bianco e blu” si registra durante il XVIII secolo.
Le porcellane dei regni di Xuande (1426-35) e Chenghua (1465-87) segnano uno dei periodi più fiorenti della produzione per la qualità del materiale e la purezza delle forme e del decoro, in cui combinazioni di fiori e animali fantastici sono dipinti con un naturalismo sino ad allora sconosciuto.
Nel XVI e XVII secolo lo stile presenta una grande varietà di forme e decori; vasi rouleau e meiping, bottiglie, piatti, e vasellame ispirato a modelli europei ed islamici in peltro ed argento, come servizi da tè e da caffè, candelieri e kendi, sono decorati con eleganti composizioni floreali, o con rappresentazioni di paesaggi o temi narrativi tratti da romanzi durante il periodo di Transizione (1620-83). Nelle prime decadi del XVII secolo verrà esportata in Europa la cosiddetta porcellana “kraak”, caratterizzata da una serie di pannelli che si irradiano da un medaglione centrale. La produzione “bianco e blu” di epoca Kangxi (1662-1722) mostra ancora un elevato livello tecnico e un’ampia gamma di forme e decori, mentre dalla seconda metà del XVIII secolo il decoro si farà gradualmente più ripetitivo e standardizzato a causa dell’affermarsi di nuove porcellane policrome, decorate con colori molto brillanti.
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Il vaso denominato meiping (vaso per fiore di pruno), destinato a contenere liquidi, è uno dei più antichi pezzi della famiglia bianco e blu, databile fra la fine del periodo Yuan (1279-1368) e l’inizio del periodo Ming (1368-1644). Presenta una perfetta fusione di forma e decoro, dal momento che il coperchio modellato a testa di fenice, rifacimento occidentale in terracotta realizzato per sostituire l’originale scomparso, prosegue nella decorazione dipinta sul corpo del vaso con il piumaggio delle ali e i fiori di peonia. Tale iconografia è comune a molti vasi antichi di questa tipologia in quanto la peonia e la fenice sono emblemi di buona fortuna, prosperità e bellezza. Acquistato da Placido de Sangro presso l’antiquario napoletano Francesco Scognamiglio, fu pagato la considerevole cifra di 100 lire.
Cina e Giappone: giade, lacche, avori
Oggetti in giada, particolarmente apprezzati in Cina per il loro valore simbolico e rituale, cominciarono a essere collezionati dai letterati confuciani nel corso della dinastia Song (960-1279). Le giade cinesi di epoca Ming (1368-1643) e Qing (1644-1912), spesso modellate su forme e decori arcaicizzanti, erano prevalentemente utilizzate come oggetti ornamentali.
Cina e Giappone giade, lacche, avori e altri materialiLa giada, importata da Khotan nella regione dello Xinjiang era invece intagliata nelle officine imperiali di Pechino e in quelle private di Suzhou, Nanjing e Hangzhou, dove artigiani locali, muniti di speciali strumenti e polveri abrasive in grado di intaccare la durezza della pietra, realizzavano forme elaborate e intricati decori traforati “a giorno”.
Particolarmente apprezzati erano piccoli oggetti da scrittoio, come fermacarte, recipienti per l’acqua, montagne in miniatura o vasi da fiori, schermi da tavolo – utilizzati dal letterato come elemento decorativo e di solitaria riflessione – o ancora oggetti personali e ornamentali, quali tabacchiere, pendenti, fibbie e statuine, questi ultimi realizzati anche in agata, quarzo, ametista e altre pietre dure.
La lacca cinese e giapponese è stata utilizzata sin dall’epoca preistorica come vernice coprente o decorativa per oggetti rituali e di uso quotidiano in legno, bambù, metallo o pelle. Le lacche giapponesi vennero importate in Europa sin dal XVI secolo, mentre nel corso del XVIII e all’inizio del XIX si affermeranno i prodotti delle botteghe di Canton, in Cina, che raggiunsero un eccellente livello tecnico nell’arte dell’intaglio.
La produzione cinese include oggetti in lacca intagliata (diaoqi), particolarmente apprezzati per l’intricato decoro, e in lacca con motivi incisi e colmati di polvere o foglia d’oro (qiangjin) o con elaborate composizioni realizzate in madreperla (laque burgauté).
Le lacche giapponesi, come scatole da scrittoio o da incenso, inro (flaconi per medicinali) o piccoli contenitori, si distinguono per l’uso di tecniche estremamente elaborate e raffinate, quali il maki-e, in cui il disegno è realizzato con piccole particelle in oro e argento applicate alla superficie umida, il takamaki-e, caratterizzato da decori a rilievo e dorati, o il raden, con intarsi in madreperla.
Approfondimenti
Giada: con il nome di giada si indicano la nefrite yu (silicato di calcio e magnesio) e la giadeite feicui (silicato di sodio e alluminio). La nefrite si trova in Siberia e nel Turkestan Orientale mentre la giadeite proviene dalla Birmania e giunse in Cina solo nella seconda metà del XVIII secolo. La giada è un minerale di grande durezza e viene lavorata a smeriglio, ossia levigata tramite degli abrasivi: ha proprietà di riscaldarsi rapidamente e può essere sonora. La nefrite siberiana è di colore verde scuro e originariamente molti pezzi venivano ricoperti di ocra rossa che pare avesse capacità curative, inoltre fu un materiale sfruttato in Cina fin dal Neolitico per la creazione di oggetti come ciondoli, anelli, asce ecc.
Lacca: detta qi, è una resina proveniente dall’albero della lacca o Rhus verniciflua che cresce nelle zone centrali e meridionali della Cina ed in alcune zone del Sud-est asiatico. La lacca cola da incisioni orizzontali praticate sulla corteccia e viene raccolta di notte, durante i mesi estivi, in piccoli recipienti di legno. Ha un colore bianco, ma se esposta all’aria scurisce e inoltre può essere colorata aggiungendo, per esempio, il cinabro per ottenere una lacca di colore rosso. La lavorazione della lacca richiede molto tempo in quanto il composto, mescolato a cenere o ingredienti vegetali, si stende tramite un pennello in sottili strati sovrapposti, ciascuno fatto accuratamente asciugare prima della stesura di quello successivo. Una volta che gli strati si sono asciugati si passa alla lucidatura dell’oggetto e alla sua decorazione tramite incisione, pittura o rilievi. Questo materiale, conosciuto fin dal Neolitico, viene impiegato in molti modi come per la costruzione di armi o strumenti musicali.
Cina, tamburino Tang
Nel 1978, con la donazione del nucleo di opere di Riccardo de Sangro, pronipote di Placido, la collezione orientale del Museo viene arricchita da un pezzo unico e antico: una statuina tombale cinese, raffigurante un tamburino a cavallo, databile alla prima metà dell’VIII secolo, sotto la dinastia Tang (618-906). Il tamburino, fu acquistato a Parigi dal fratello minore del duca, Nicola, negli anni ’30 del Novecento.
Cina, tamburino TangLa statuina, prodotta nella manifattura settentrionale del Henan o dello Shaanxi, è in terracotta color camoscio, parzialmente ricoperta da invetriature al piombo colate di giallo ambra e verde mentre il tamburino, indossa un lungo abito a maniche ampie, un cappuccio invernale (fengmao) che scende sulla spalla e degli stivali. Le maniche svolazzano mentre è intento a percuotere, probabilmente con bacchette in legno andate perdute, il piccolo tamburo sistemato lateralmente accanto alle briglie.
Questo tipo di statuina funeraria o mingi, “oggetti degli spiriti o luminosi”, il cui numero all’interno delle tombe era spesso regolato da editti imperiali sulla base del rango del defunto, era frequentemente utilizzato nelle sepolture Tang, in sostituzione dei sacrifici umani e animali praticati in Cina fino a tutto il periodo Shang (1600-1100 a.C.), ed era finalizzato a rappresentare fedelmente tutto ciò che il defunto possedeva in vita. La frequenza e il realismo con cui venivano rappresentati i cavalli rivelano chiaramente la passione che tale dinastia aveva per questi animali importati, di solito, dall’Occidente.
Ultimo aggiornamento
4 Giugno 2021, 15:54